Anno 2010
Il mio nome è
RINALDO ROZZI ingegnere
elettrotecnico ed archeologo
Sono nato a
Bologna il 1° ottobre 1917 da Donato Rozzi abruzzese e Irma Malavasi emiliana,
e me ne sono andato da questo mondo per uno scherzo del destino il 6 di luglio
1955.
Ho avuto due
fratelli più grandi, Ferdinando e Clara, la quale si è ricongiunta a me da
pochi mesi, a 97 anni suonati: senza incidenti la mia razza sarebbe longeva. La
famiglia al tempo della mia nascita risiedeva a Bologna per via dei parenti di
mia madre Irma Malavasi, ma le proprietà di mio padre erano tutte in Abruzzo a
Teramo, Campli, Tortoreto. Mio padre nella sua vita ha lavorato come si
conveniva ad un proprietario terriero
abruzzese, comprando, vendendo, coordinando l’altrui lavoro. Per noi figli è
stata un’altra musica, ma probabilmente non mi sarebbe piaciuto diversamente.
Ho pochi ricordi della mia vita e dell’infanzia soprattutto, quelli che di me
ha mio figlio. Ho fatto il liceo classico a Bologna, per iniziare ingegneria ho
avuto il mio bel da fare a studiare la matematica che mi serviva, ma poi la
rigorosa preparazione del liceo mi ha permesso di procedere spedito. A Bologna
mi sono laureato nel vita. Costretto ad una forzata inattività dal passaggio del
fronte nel 1944, scoprii la passione di una vita, leggendo dell’antico Abruzzo
negli “Studi di preistoria e storia” di Concezio Rosa e avendo la fortuna che
mio padre possedesse terreni sedi di antiche tribù neolitiche, anche se nessuno
lo sapeva ancora. Vero è che spesso arando, i contadini trovavano quelle che
chiamavano “sajettì” perché credevano fossero saette, fulmini caduti e
solidificati in pietra, invece che antiche punte di freccia o lancia. A volte
denti, ossa, tavelloni di sepolture magari più recenti venivano alla luce. Ce
n’era abbastanza per suscitare l’interesse di una persona col mio carattere e la mia curiosità. Iniziai scavi archeologici
nelle terre di famiglia con la passione del neofita ed il rigore scientifico
dell’ingegnere, e ovunque mi trovassi negli anni successivi a risiedere,
cercai, scavai, trovai vestigia dei nostri antichi progenitori. Non smisi però
mai di amare la mia bella terra abruzzese ed un luogo e una chiesa in
particolare, Santa
Maria di Propezzano vicino Notaresco di Teramo, che ha il fascino speciale
degli antichi monasteri Benedettini: anche più volte rimaneggiata la sua anima
antica rimane sempre viva. Quando la guerra si allontanò lavorai prima come
semplice operaio a Roma, poi nel 1945 iniziai come ingegnere alla società
idroelettrica Terni, che così si chiamava per via dei proprietari e solo
incidentalmente aveva sede a Terni assieme alle famose acciaierie. Dei miei
stipendi mandavo sempre la maggior parte a casa ai miei genitori e non solo per
rispetto, a loro volevo sinceramente bene. Divenni presto il più giovane
dirigente nella società, quale capo sezione ufficio tecnico macchinari, e qui è
mio figlio Carlo Maria che pretende lo dica, per meriti veri. Erano gli anni
della ricostruzione: ciò che i tedeschi non avevano minato e distrutto durante
la ritirata era comunque in condizioni pietose, tutto doveva essere recuperato,
tutto ricostruito con mezzi tecnici ridotti all’essenziale. Fra le tante cose
notevoli, tecnologie inventate o riscoperte per forza e per necessità, costruii
un dispositivo magnetico col quale individuai il difetto di una turbina nel suo
albero lungo sette metri che fu raddrizzato e riutilizzato. Progettai la
struttura e la centrale elettrica della diga
di Gualdo Tadino presso
il convento del Divino Amore in una delle zone più belle d’Italia (vedi Pro
Tadino). Nel 1946 ero già
capocentrale a Cotilia, nei pressi del paese di Cittaducale
a Rieti. Lì conobbi mia moglie Hadrian de Hieronymis (genealogia della famiglia
de Hieronymis), di antico sangue abruzzese come me, nonostante il nome un
po’ particolare, che sposai nella cattedrale dell’Aquila il 16 luglio del 1947.
Fu mia compagna di vita e di scavi archeologici fino all’ultimo giorno ed
ancora oggi mi ricorda con amore (vedi
un breve scritto di Hadrian de Hieronymis con note sulle tecniche dei nostri
scavi archeologici). Vero è che ora non accetterebbe più che sia l’uomo a
decidere in ogni cosa, ma non ricorda che io abbia agito mai se non per il bene
della famiglia. Quando mi chiedeva un parere, per farla arrabbiare spesso le
rispondevo serio: “tu fai, poi io giudicherò”. Il 25 luglio 1948 nasceva mia
figlia Donatella, il 15 febbraio 1952 mio figlio Carlo Maria. Mia moglie
conserva ancora i foglietti dove tutte le spese della famiglia venivano
programmate e annotate: fumavo dieci sigarette al giorno, nazionali
esportazione senza filtro, quelle verdi, regolarmente riportate come voce di
spesa in uscita. Le sigarette e l’umana insipienza decretarono la mia strana
fine. Volli fare una radiografia per capire se la gastrite poteva essere
l’inizio di un’ulcera, forse dovuta al fumo forse allo stress, ma per maggior
tranquillità in una clinica privata e non negli ambulatori medici convenzionati
con
uno passarono lentamente fino al giorno che mio figlio scoprì
con sorpresa che nel comune di Ostia una strada
era stata intitolata al mio nome perché archeologo. Non fui mai archeologo
professionista ma qualcuno ha voluto ugualmente riconoscere i miei meriti e
così sono ricordato, vicino al Pallottino a Brunn e a tanti altri. Ora però
voglio riportare quanto nella mia vita feci per assecondare la mia grande
passione perché quanto scoprii non vada
del tutto perso. Fondamentale fu la collaborazione e l’amicizia col Prof. Antonio Mario Radmilli
che partecipò più volte attivamente alla nostre ricerche, visibile a sinistra
assieme a me e mia moglie durante lo scavo di un fondo di capanna a Pianaccio
nella valle del fiume Salinello a Tortoreto (TE) . Quando me ne andai fu lui a
redigere una breve memoria della mia attività di archeologo sul “Bullettino di
paletnologia Italiana” vol. 65° del 1956 intitolata “Il Contributo di Rinaldo Rozzi allo studio della
preistoria abruzzese”. Allo stato dell’arte nel 1955 il Prof. Radmilli
riteneva che la cultura del Pianaccio fosse identica a quella di Ripoli,
località posta a circa
necessità,
spingessero i nostri progenitori ad affrontare con mezzi così inadeguati i
pericoli del mare che ancora oggi ci atterriscono in caso di tempesta.
Un breve cenno merita il ritrovamento di frammenti di ossidiana nel sito di
Pianaccio come in tanti altri coevi e antecedenti, che dimostra come il
commercio di tale vetro naturale fosse attivo almeno fin dal 5° millennio a.C.
. Considerato che tutti i principali giacimenti mediterranei di ossidiana sono
insulari (Pantelleria, Lipari, Palmarola nelle isole Ponziane, Monte Arci in
Sardegna, isola di Milos nell’Egeo), si capisce come essa dovesse essere trasportata via mare per
diffondersi poi via terra, ad esempio dal Tirreno verso gli Abruzzi attraverso
gli Appennini. Poiché indubbiamente era un minerale raro e prezioso, sommamente
adatto per realizzare armi affilate o sofisticati monili, non è facile capire
quali fossero le merci di egual valore scambiabili con essa. Probabilmente come
per l’antica anche se molto successiva monetazione di rame o bronzo, un oggetto
piccolo realizzato di materiale raro, utile ( anche rifondibile, nel caso del
bronzo, per scopi diversi ) poteva valere molti oggetti grandi ma di uso
corrente. Iniziai gli scavi al Pianaccio nella valle del Salinello nel 1944
cercando da subito contatti e collaborazione con le autorità competenti. Fu così che conobbi i Professori Umberto Calzoni e Pietro Barocelli del museo Pigorini di Roma e
successivamente il Prof. Antonio Mario Radmilli, iniziando a pubblicare nei
primi anni ’50 i risultati delle mie ricerche. Negli Atti dell’Accademia
Nazionale dei Lincei vol. VII serie VIII fascicoli 1-6 1953, presento una relazione degli scavi da me effettuati nel 1952 a
Pianaccio nelle capanne 52 e 55 e parlo delle limitrofe stazioni Ferri , S.
Donato e Costa del Monte, quest’ultima
scoperta nel 1951 dal Prof. Radmilli assieme al frate
passionista Prof. Padre Natale Cavatassi, giornalista, scrittore e divulgatore. Nella capanna 52 rinvenni fra
l’altro una minuscola lama di ossidiana e nella 55 un raschiatoio di tecnica
musteriana che presentava due patine ed era perciò quasi sicuramente stato
trovato in giacimenti del paleolitico medio e riutilizzato. Le due foto qui riportate sono relative agli
scavi in Pianaccio dell’agosto 1951. Nella prima fotografia, relativa alla
capanna 35, sono visibili da sinistra in piedi il Prof. Radmilli, Walter De
Hieronymis fratello di Hadrian, padre Cavatassi e me stesso chinato ad
osservare, mentre in primo piano un collaboratore di cui non ricordo il nome,
nella seconda il Prof. Radmilli dorme nel fondo della medesima capanna. Questi
scavi venivano da me effettuati nella valle del Salinello secondo un programma
coordinato col Comitato per le
ricerche preistoriche in Abruzzo, fondato in quegli anni da vari studiosi
ed appassionati fra i quali Radmilli stesso ed il Sovrintendente Valerio Cianfarani, comitato
cui partecipavo e col quale collaboravo. Tutte gli scavi e tutti i
ritrovamenti venivano scientificamente annotati in un taccuino completo di
rilievi e disegni a china dei manufatti ritrovati, i cui contenuti sono in buona
parte inediti e che riporto nel seguito augurandomi che contengano ancora
informazioni o chiarimenti che possano aggiungere qualcosa di interessante alla
moderna ricerca. L’inizio fu, come tutti gli inizi, povero di mezzi ma ricco di
baldanza. Mi limitai dapprima a raccogliere e catalogare ciò che spesso, dopo
le arature, rinvenivo nei terreni nostri, dello zio Raffaele e del nostro
vicino Cavatassi. Venuto in possesso degli scritti del Concezio Rosa che aveva
effettuato negli ultimi anni dell’ottocento scavi e rilievi nella vicina valle
della Vibrata mi resi conto che, probabilmente per la contiguità dei luoghi, i
manufatti presentavano notevoli affinità. In realtà si rinvenivano mescolati
oggetti realizzati con tecniche ma anche capacità molto differenti. Ecco dunque
i miei appunti che riassumono gli scavi effettuati ed
i manufatti rinvenuti nella località Pianaccio di Tortoreto Lido e sue
vicinanze negli anni che vanno dal 1944 al 1947.
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