Anno 2024
Il mio nome è RINALDO ROZZI ingegnere elettrotecnico ed archeologo.
Sono nato a Bologna il 1° ottobre 1917 da Donato Rozzi abruzzese e Irma Malavasi emiliana, e me ne sono andato da questo mondo per uno scherzo del destino il 6 di luglio 1955. Ho avuto due fratelli più grandi, Ferdinando e Clara, la quale si è ricongiunta a me a 97 anni suonati: senza incidenti la mia razza sarebbe longeva. La famiglia al tempo della mia nascita risiedeva a Bologna per via dei parenti di mia madre, Irma Malavasi, ma le proprietà di mio padre erano tutte in Abruzzo a Teramo, Campli, Tortoreto. Mio padre nella sua vita ha lavorato come si conveniva ad un proprietario terriero abruzzese, comprando, vendendo, coordinando l’altrui lavoro. Per noi figli è stata un’altra musica, ma probabilmente non mi sarebbe piaciuto diversamente. Ho pochi ricordi della mia vita e dell’infanzia soprattutto, quelli che di me ha mio figlio, mi piace però rivedermi vestito da olandese con mia sorella Clara in una buffa fotografia di maniera. Ho fatto il liceo classico a Bologna. Per iniziare ingegneria ho avuto il mio bel da fare a studiare la matematica che mi sarebbe servita, ma poi la rigorosa preparazione del liceo mi ha permesso di procedere spedito. A Bologna mi sono laureato nel 1941 in ingegneria elettrotecnica, la mia famiglia tornata in Abruzzo, pensionante in casa delle Sig.ne Grandi di Palazzo Albergati in Saragozza, ragazze d’altri tempi di buona famiglia che venti anni dopo tentarono inutilmente di insegnare francese a mio figlio Carlo Maria. I soldi allora erano pochi ma due borse di studio ed un premio del Consiglio Nazionale delle Ricerche mi aiutarono a finire gli studi con lode e fare un anno di perfezionamento. C’era la guerra, avrei voluto servire la patria che non me lo permise chiedendomi in cambio di laurearmi in ingegneria aeronautica, ma non ci fu tempo nemmeno per questo. Ero a Roma in quel periodo, mantenendomi agli studi, ed annotavo tutto in un microscopico taccuino, dei primi sorvoli degli aerei alleati, del bombardamento di San Lorenzo quando uscì il Papa, della caduta del Governo Mussolini, dell’armistizio dell’8 settembre, “Povera Italia!” scrissi, e dei miei esami di aereonautica, tutti 30 e 30 e lode l’ultimo 29, “Ahimè ho interrotto la serie”. Il ritorno a casa da Roma in Abruzzo fu avventuroso, partii a piedi, cercai poi un passaggio per trovarlo con scaramantica sorpresa su un carro funebre, ma non c’era tanto da scegliere. Invece mio fratello Nando, dopo aver combattuto per la patria e l’ideale prima i comunisti poi la perfida Albione, divenne infine partigiano bianco. Nel 1944 con Filippo D’Ajutolo partecipò all’occultamento del radio dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna, per sottrarlo ai tedeschi che lo avrebbero utilizzato per scopi bellici. A me diceva sempre che il pericolo allora veniva dalle spalle molto più che dal fronte e dormiva sempre la notte con una pistola sotto il cuscino. Stranezze della vita. Mia sorella Clara, laureata in lettere e diplomata in pianoforte, al passare del fronte sposò un simpatico ufficiale polacco, Wlodek se non sbaglio, che fuggiva di lì a poco tornando in patria dalla moglie. Lei era innamorata, il suo matrimonio venne annullato dalla Sacra Rota ma non si risposò mai più, dedicando i suoi anni migliori ai genitori. Papà Donato intanto commise l’errore di cambiare mestiere. Sostenne con altri l’iniziativa “Sabbie Ferrose di Martinsicuro”, opera di alcuni onesti imprenditori romani, che sparirono col capitale sociale della appena costituita società. Ma lui aveva un onore da salvaguardare e pagò tutti i debiti in lire oro, l’unica moneta che non si svalutava con la guerra, riducendo la famiglia nella casa estiva di Tortoreto Lido, con poche terre rimaste, tutto il resto perso. Sono questi gli anni più duri e più belli della mia vita.
Costretto ad una forzata inattività dal passaggio del fronte nel 1944, scoprii la passione di una vita, leggendo dell’antico Abruzzo negli “Studi di preistoria e storia” di Concezio Rosa e avendo la fortuna che mio padre possedesse terreni sedi di antiche tribù neolitiche, anche se nessuno lo sapeva ancora. Vero è che spesso arando, i contadini trovavano quelle che chiamavano “sajettì” perché credevano fossero saette, fulmini caduti e solidificati in pietra, invece che antiche punte di freccia o lancia. A volte denti, ossa, tavelloni di sepolture magari più recenti venivano alla luce. Ce n’era abbastanza per suscitare l’interesse di una persona col mio carattere e la mia curiosità. Iniziai scavi archeologici nelle terre di famiglia con la passione del neofita ed il rigore scientifico dell’ingegnere, e ovunque mi trovassi negli anni successivi a risiedere, cercai, scavai, trovai vestigia dei nostri antichi progenitori. Non smisi però mai di amare la mia bella terra abruzzese ed un luogo e una chiesa in particolare, Santa Maria di Propezzano vicino Notaresco di Teramo, che ha il fascino speciale degli antichi monasteri Benedettini: anche più volte rimaneggiata la sua anima antica rimane sempre viva. Nel 1945, quando la guerra si allontanò, iniziai a lavorare presso le Officine Riparazioni Auto Regia Aereonautica in Roma, nel ’46 vinsi un concorso, iniziando la professione di ingegnere presso la società idroelettrica Terni, che così si chiamava per via dei proprietari e solo incidentalmente aveva sede a Terni assieme alle famose acciaierie. Dei miei stipendi mandavo sempre la maggior parte a casa ai miei genitori e non solo per rispetto, a loro volevo sinceramente bene. Divenni presto il più giovane dirigente nella società, quale capo sezione ufficio tecnico macchinari, e qui è mio figlio Carlo Maria che pretende lo dica, per meriti veri. Erano gli anni della ricostruzione: ciò che i tedeschi non avevano minato e distrutto durante la ritirata era comunque in condizioni pietose, tutto doveva essere recuperato, tutto ricostruito con mezzi tecnici ridotti all’essenziale. Fra le tante cose notevoli, tecnologie inventate o riscoperte per forza e per necessità, costruii un dispositivo magnetico col quale individuai il difetto di una turbina nel suo albero lungo sette metri che fu raddrizzato e riutilizzato. Progettai la struttura e la centrale elettrica della diga di Gualdo Tadino presso il convento del Divino Amore in una delle zone più belle d’Italia (vedi Pro Tadino). Nel 1946 ero già capocentrale a Cotilia, nei pressi del paese di Cittaducale a Rieti. Lì conobbi mia moglie Hadrian de Hieronymis (genealogia della famiglia de Hieronymis), di antico sangue abruzzese come me, nonostante il nome un po’ particolare, che sposai nella cattedrale dell’Aquila il 16 luglio del 1947. Fu mia compagna di vita e di scavi archeologici ed ora, finalmente, dopo tanti anni è di nuovo vicina a me, mentre fino all’ultimo giorno di vita terrena mi ha sempre ricordato con amore (vedi un breve scritto di Hadrian de Hieronymis con note sulle tecniche dei nostri scavi archeologici). Vero è che non avrebbe accettato più che fosse l’uomo a decidere in ogni cosa, ma non ricordava che io avessi agito mai se non per il bene della famiglia. Quando mi chiedeva un parere, per farla arrabbiare spesso le rispondevo serio: “tu fai, poi io giudicherò”. Il 25 luglio 1948 nasceva mia figlia Donatella, tornata ora qui accanto a me, il 15 febbraio 1952 mio figlio Carlo Maria. Quando nacque dissi ad Hadrian, e forse non solo per scherzo: ” ecco, è arrivato chi mi ruberà il cuore di mia moglie”. Dopo anni dalla mia morte lei conservava ancora i foglietti dove tutte le spese della famiglia venivano programmate e annotate: fumavo dieci sigarette al giorno, nazionali esportazione senza filtro, quelle verdi, regolarmente riportate come voce di spesa in uscita. Le sigarette e l’umana insipienza decretarono la mia strana fine. Volli fare una radiografia per capire se la gastrite poteva essere l’inizio di un’ulcera, forse dovuta al fumo forse allo stress, ma per maggior tranquillità nella clinica privata Moraca e non negli ambulatori medici convenzionati con la Terni. Mi uccisero a 38 anni il 6 luglio 1955 dandomi per liquido di contrasto del solfato di bario industriale anziché medico, avendo così scarsa professionalità da capirlo dopo otto ore. La lavanda gastrica perciò non mi salvò. Due medici furono radiati dall’albo e grazie alla determinazione di mia moglie nell’accusarli i miei figli hanno goduto di un giusto risarcimento che li ha aiutati a crescere. Loro però hanno sempre detto che è una magra consolazione se non si è avuto un padre e che è meglio vivere poveri che orfani: mi dispiace non aver potuto fare di più per loro, ma so che mi hanno perdonato con tutto il cuore. La mia famiglia si trasferì dopo breve tempo a Bologna dove la sorella di mia madre, Elide Malavasi, diede lavoro ed aiuto a mia moglie, poi gli anni uno ad uno passarono lentamente fino al giorno che mio figlio scoprì con sorpresa che nel comune di Ostia una strada era stata intitolata al mio nome perché archeologo. Non fui mai archeologo di professione ma qualcuno ha voluto ugualmente riconoscere i miei meriti e così sono ricordato, vicino al Pallottino a Brunn e a tanti altri. Qualche anno dopo anche nel comune di Tortoreto Lido mi fu intitolata per la stessa ragione un’altra strada. Ora però voglio riportare quanto nella mia vita feci per assecondare la mia grande passione perché quanto scoprii non vada del tutto perso. Fondamentale fu la collaborazione e l’amicizia col Prof. Antonio Mario Radmilli che partecipò più volte attivamente alle nostre ricerche, visibile a sinistra assieme a me e mia moglie durante lo scavo di un fondo di capanna a Pianaccio nella valle del fiume Salinello a Tortoreto (TE). Quando me ne andai fu lui a redigere una breve memoria della mia attività di archeologo sul “Bullettino di paletnologia Italiana” vol. 65° del 1956 intitolata “Il Contributo di Rinaldo Rozzi allo studio della preistoria abruzzese”. Allo stato dell’arte nel 1955 il Prof. Radmilli riteneva che la cultura del Pianaccio fosse identica a quella di Ripoli, località posta a circa 7 km a sud del Pianaccio stesso, caratterizzata da ceramica figulina (cioè a grana fine depurata) e da cuspidi di freccia e punte di lancia a lavorazione mono e bifacciale. Era convinto che gli utensili più antichi ritrovati, di fattura musteriana (paleolitico medio) con tracce di doppia patina, come io stesso avevo sostenuto fossero solo di riutilizzo degli abitanti del Pianaccio, cioè trovati in vecchi giacimenti e riadattati all’uso. Analogamente non vi erano tracce evidenti che questi abitati fossero sopravvissuti fino all’eneolitico (età del bronzo). Si trattava perciò di villaggi databili al neolitico medio, probabilmente risalenti al 4° millennio a.C. con tracce culturali tali però (presenza di cuspidi di freccia, assenti nella cultura neolitica italiana propriamente detta) da far ritenere che fossero stati fondati da popolazioni allogene che si stanziarono in Italia provenendo via terra o via mare da centri di irradiazione allora ancora non individuati. Quali siano gli sviluppi ad oggi di tali ipotesi non so, perché per forza di cose ho perso il filo del discorso; tuttavia, una delle tesi accreditate è che ci sia stata una diffusione, per contiguità o emigrazione, dalla Mezzaluna Fertile verso i Balcani e l’Italia, delle tecniche della coltivazione del suolo e della realizzazione di attrezzi volti a tale scopo, e di armi e recipienti in ceramica più evoluti. A pag. 29 della pubblicazione “Italia e Romania” edito da Edipuglia nel 2004 è possibile vedere una cartina con un’ipotesi delle direttrici di tale diffusione. Nel 1954-55 ebbi però una intuizione originale, riconosciuta dal Radmilli stesso nella pagina finale del citato “Contributo”, che mi spinse a far analizzare la composizione chimica e mineralogica della ceramica figulina del Pianaccio (del tipo Ripoli) ed a confrontarla con quella di tipo analogo rinvenuta negli scavi di Sebenico effettuati dal Prof. Josip Korošec, docente di preistoria e archeologia dell’università di Lubiana, che avevo nel frattempo conosciuto. Lo stesso Prof. Korošec in una pubblicazione di alcuni anni dopo, lamentando la mia morte, mi ringraziava delle analisi fatte presso i laboratori del carburo delle acciaierie Terni. Le affinità fra queste ceramiche erano tali da far ritenere che esistessero scambi commerciali, oltre che culturali, fra le opposte sponde dell’Adriatico. Il fatto in se al giorno d’oggi sarebbe insignificante, se non che all’epoca la navigazione era quasi certamente limitata al piccolo cabotaggio grazie all’uso di piroghe monossili (realizzate scavando un tronco unico), simili a quella lunga 10 metri ritrovata nel 1993 nel lago di Bracciano detta “piroga monossile Marmotta 1”, o a catamarani sospinti con pagaie non essendo probabilmente ancora particolarmente diffuso l’uso delle vele, attestato con certezza solo a partire dal terzo millennio a. C. in Egitto sia da testi scritti che da ritrovamenti. È ammirevole come l’ingegno, o la necessità, spingessero i nostri progenitori ad affrontare con mezzi così inadeguati i pericoli del mare che ancora oggi ci atterriscono in caso di tempesta. Una ipotesi alternativa, che spiegherebbe ancor meglio la somiglianza delle ceramiche sulle due sponde dell’Adriatico, è la migrazione balcanica, come confermerebbe lo studio della diffusione del particolare genoma umano (vedi ad esempio in merito https://youtu.be/qqcfMUDfl94 ) con direttrice verso nord dai Balcani e verso sud dalla pianura Padana. Un breve cenno merita il ritrovamento di frammenti di ossidiana nel sito di Pianaccio come in tanti altri coevi e antecedenti, che dimostra come il commercio di tale vetro naturale fosse attivo almeno fin dal 5° millennio a.C. Considerato che tutti i principali giacimenti mediterranei di ossidiana sono insulari (Pantelleria, Lipari, Palmarola nelle isole Ponziane, Monte Arci in Sardegna, isola di Milos nell’Egeo), si capisce come essa dovesse essere trasportata via mare per diffondersi poi via terra, ad esempio dal Tirreno verso gli Abruzzi attraverso gli Appennini. Poiché indubbiamente era un minerale raro e prezioso, sommamente adatto per realizzare armi affilate o sofisticati monili, non è facile capire quali fossero le merci di egual valore scambiabili con essa. Probabilmente come per l’antica anche se molto successiva monetazione di rame o bronzo, un oggetto piccolo realizzato di materiale raro, utile (anche rifondibile, nel caso del bronzo, per scopi diversi) poteva valere molti oggetti grandi ma di uso corrente. Iniziai gli scavi al Pianaccio nella valle del Salinello nel 1944 cercando da subito contatti e collaborazione con le autorità competenti. Fu così che conobbi i Professori Umberto Calzoni e Pietro Barocelli del museo Pigorini di Roma e successivamente il Prof. Antonio Mario Radmilli, iniziando a pubblicare nei primi anni ’50 i risultati delle mie ricerche. Negli Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei vol. VII serie VIII fascicoli 1-6 1953, presento una relazione degli scavi da me effettuati nel 1952 a Pianaccio nelle capanne 52 e 55 e parlo delle limitrofe stazioni Ferri, S. Donato e Costa del Monte, quest’ultima scoperta nel 1951 dal Prof. Radmilli assieme al frate passionista Prof. Padre Natale Cavatassi, giornalista, scrittore e divulgatore. Nella capanna 52 rinvenni fra l’altro una minuscola lama di ossidiana e nella 55 un raschiatoio di tecnica musteriana che presentava due patine ed era perciò quasi sicuramente stato trovato in giacimenti del paleolitico medio e riutilizzato. Le due foto qui riportate sono relative agli scavi in Pianaccio dell’agosto 1951. Nella prima fotografia, relativa alla capanna 35, sono visibili da sinistra in piedi il Prof. Radmilli, Walter de Hieronymis fratello di Hadrian, padre Cavatassi e me stesso chinato ad osservare, mentre in primo piano un collaboratore di cui non ricordo il nome, nella seconda il Prof. Radmilli dorme nel fondo della medesima capanna. Questi scavi venivano da me effettuati nella valle del Salinello secondo un programma coordinato col Comitato per le ricerche preistoriche in Abruzzo, fondato in quegli anni da vari studiosi ed appassionati fra i quali Radmilli stesso ed il Sovrintendente Valerio Cianfarani, comitato cui partecipavo e col quale collaboravo. Tutti gli scavi e tutti i ritrovamenti venivano scientificamente annotati in un taccuino completo di rilievi e disegni a china dei manufatti ritrovati, i cui contenuti sono in buona parte inediti e che riporto nel seguito augurandomi che contengano ancora informazioni o chiarimenti che possano aggiungere qualcosa di interessante alla moderna ricerca. L’inizio fu, come tutti gli inizi, povero di mezzi ma ricco di baldanza. Mi limitai dapprima a raccogliere e catalogare ciò che spesso, dopo le arature, rinvenivo nei terreni nostri, dello zio Raffaele e del nostro vicino Cavatassi. Venuto in possesso degli scritti del Concezio Rosa che aveva effettuato negli ultimi anni dell’Ottocento scavi e rilievi nella vicina valle della Vibrata mi resi conto che, probabilmente per la contiguità dei luoghi, i manufatti presentavano notevoli affinità. In realtà si rinvenivano mescolati oggetti realizzati con tecniche ma anche capacità molto differenti. Ecco dunque i miei appunti che riassumono gli scavi effettuati ed i manufatti rinvenuti nella località Pianaccio di Tortoreto Lido e sue vicinanze negli anni che vanno dal 1944 al 1947. Dopo alcuni anni dalla redazione di queste note il Prof. Francesco Di Gennaro, all’epoca Direttore del Museo Archeologico Pigorini di Roma, si mise in contatto con mio figlio Carlo Maria interessandosi alle mie note ed agli studi non ancora pubblicati, i quali volle copiare digitalmente in modo che divenissero patrimonio museale. Venne poi in Cittaducale ove conobbe mia moglie Hadrian, si legò di amicizia con mio figlio e si adoperò perchè in qualche modo fosse ripreso il filo delle ricerche archeologiche interrotte al momento della mia morte nel luglio del 1955. In una breve conferenza egli qui riassume lo stato di questi nuovi studi fino all’inizio del 2024 https://youtu.be/rXo9OPr8vLc?si=R5DKpe3WbuI2Hi9T
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